MARIO
RUSCA
Nato a Torino dove studia pianoforte
classico. Si trasferisce a Milano nel 1969 e prosegue gli studi
di armonia e composizione. Il “ Capolinea “ il noto jazz club milanese,lo
vede protagonista dal ‘71 al ’77. Nel ‘71 collabora con il famoso
violinista Joe Venuti con il quale registra “Joe Venuti Group” ,oltre
ad una serie di concerti dal ‘71 al 74. Il primo disco di jazz a
suo nome, “Reaction” lo registra nel ‘71 per Dinya World. L’anno
sucessivo registra in quartetto, sempre a suo nome “Suspension”
con: Tullio de Piscopo, Giorgio Baiocco e Bruno Tommaso. Il 1976
e’ un anno significativo: collabora con “Gerry Mulligan” in tournee
e registra per la Rai TV. Rappresenta l’Italia, come “Piano solo”
al “Festival Internazionale” di Varsavia. Negli anni successivi
collabora con alcuni tra i piu’ importanti musicisti americani tra
i quali : Gerry Mulligan, Chet Baker, Al Gray, Art Farmer, Lou Donaldson,
Curtis Fuller, Lee Konitz (con il quale registra “Where’s the blues?”),
Bob Berg, Kay Winding, Jimmy Owens, Toot’s Thielemans, Kenny Clarke,
Stan Getz, Steve Lacy, Steve Grosmann, Eddie L. Joe Davis, Dusko
Goykovic e Pepper Adams, Gianni Basso, Franco Ambrosetti, Woody
Show, Enrico Rava (C.D.Mario Rusca & Enrico Rava, D.N.A.) “Smiling
in Hollywood”. Nel 1985 vince LA “COPPA DEL JAZZ” organizzata da
Adriano Mazzoletti per Rai STEREO UNO, con il suo Quintetto formato
da: Gianni Cazzola, Lucio Terzano, Gabriele Comeglio, e Flavio Boltro.
Nello stesso anno con il Quintetto” partecipa al “Festival internazionale
di Montreal. Il sodalizio con Tony Scott dal ‘ 72 al ‘2006. E’ docente
alla “Scuola Civica di Milano” per i corsi di Jazz e alla SMUM di
Lugano.
Mario Rusca
Mario Rusca starts the first experiences years ago with a lot of
performances in trio. From ‘71 to ‘74 Mario had a long collaboration
with the famous violinist Joe Venuti. “Reaction” is his first album
produced by Dynia World Records in ‘74 performed with Stefano Cerri
(Cb) and Gianni Cazzola (Dr). In 1975 Mario was in studio for two
new records. “Suspension” (quartet with Tullio de Piscopo, George
Baiocco, Bruno Tommaso) and his first Piano Solo “Joyette” (Dire-Records).
In 1976 Mario plays in tour with Gerry Mulligan and is choosen for
representing Italy in Piano Solo at the International Festival of
Warsavia. Mario Rusca performs his sounds with a lot of great musicians
like: Chet Baker, Al Gray, Tony Scott, Art Farmer, Lou Donaldson,
Curtis Fuller, Bob Berg, Kay Winding, Jimmy Owens, Toot’s Thielemans,
Kenny Clarke, Stan Getz, Steve Lacy, Steve Grosmann, Eddie L. Joe
Davis, Dusko Goykovic, Pepper Adams, Lee Konitz, “Mario Rusca &
Lee Konitz” (CD), “ Where’s blues”, Franco Ambrosetti, Gianni Basso,
Francis Coletta, George Robert, Enrico Rava, Woody Shaw. The Mario
Rusca Quintet won in 1984 “The Cup of the Jazz Award” organized
by Adriano Mazzoletti on air in National Channel RAI Radio Stereo
1. The Mario Rusca Quintet had a lot of performances in Europe and
had a great ovation at the International Jazz Festival of Montreal.
Acutally Mario is an appreciate teacher of Piano in SMUM school
of Jazz Music in Lugano and at the Civic School of Jazz in Milan.
Most recently is available “Speak Low” his last studio work in trio
with Riccardo Fioravanti (Cb) and Stefano Bagnoli (Dr). Actually
this trio is performing live.
Note per “Andante”
C’è stato un tempo, ormai molto lontano, ma forse neppure così lontano,
in cui il pianoforte troneggiava nei salotti di Parigi e gli Chopin,
i Liszt (per non parlare dei Ries, dei Kalkbrenner, dei Kummel,
dei Bulow, dei tanti che si destreggiavano in una serie di ottave
protratte fino al limite delle forze), in cui tutti dovevano “ esibire
le loro viscere” (così definiva Strawinskji queste tenzoni) in serate
al calor bianco in cui alcuni si attenevano ad un virtuosismo brillante,
altri ad un salottiero effluvio di sentimenti, altri ancora improvvisando
su temi chiesti dal pubblico. Era la seconda metà dell’Ottocento,
un mondo di salotti nei quali gli artisti erano eroi e incarnavano
gli ideali romantici, un po’ guerrieri e un po’ sacerdoti, amati
dalle dame e dalle damigelle subito avvinte dal turbine della loro
musica.
Da allora il mondo è cambiato, il pianoforte di Clementi è diventato,
spesso, un keyboard, che significa tastiera ma anche macchina da
scrivere, ed è stato utilizzato in mille modi, sempre offrendo ai
pianisti, incredibile prodigalità dello strumento, strade diverse,
magari ostili, rissose, ma pur sempre affascinanti, in un continuo
tentativo di metamorfosi, in un costante divenire alla ricerca di
un altrove indefinito, labile e sfuggente. E sono stati i jazzisti,
più di altri, ad aprire nuove strade, a esplorare territori inediti,
a proporre ritmi originali, bruscamente scostandosi dalla tradizione
accademica per dare vita a forme nuove. E il “piano solo” non ha
mai cessato di essere un punto di riferimento, quasi invitando gli
artisti a prodursi in sempre nuove situazioni con quella scrittura
“ difficile “ che sembra essere una delle tante caratteristiche
della nostro epoca, “Epoca della fretta – scriveva Nietzsche nel
1886 per la prefazione di “ Aurora” – della precipitazione indecorosa
e sudaticcia”. Non solo, ma proprio attraverso la lunga, precipitosa,
strada del “piano solo” sono emerse le prime crepe fra musica e
musica: musica colta da una parte, musica da intrattenimento dall’altra
e, infine, anche musica popolare, ai confini, si pensava, dell’arte.
Sembravano sicure roccaforti le etichette e gli artisti sembravano
avere la possibilità di agire entro territori precisi, i classici,
i jazzisti in modo particolare. Ma in questo tempo della “fretta”
anche le classificazioni scolastiche hanno perso la loro rigida
fisionomia e le mura sono crollate e gli stili si sono confusi,
ognuno legato al suo mondo ma pronto a recepire l’altro, dall’altro
a farsi contaminare cercando inedite possibilità, sfruttando quegli
elementi “ indigeni” propri del diverso. Così ecco di nuovo trionfare
il “piano solo”: il classico che si lascia avvincere dal popolare,
il jazz che aspira al conservatorio e gli uni e gli altri pronti
ad ogni contaminazione. Già negli anni del primo Novecento qualcuno
ascoltando Art Tatum poteva azzardare nuovi, non impossibili, traguardi
per il jazz, mentre Fats Waller ironicamente strizzava l’occhio
suonando alla Bach o alla Chopin, in un mondo di blues o di rag
time. Ma la musica si muove in fretta, guarda al passato, troppo
glorioso per essere dimenticato, ma cerca sbocchi, crea situazioni
a volte confuse, a volte distorte, eppure sempre indirizzate verso
quel diverso che sembra essere l’aspirazione di tutti. Così mentre
il pubblico applaude Pollini con le sue splendide interpretazioni
dei classici, si interessa anche alle avventure di un Nono, di un
Berio e ancora le musiche si fondono, forse, in attesa che da una
tastiera scaturisca, finalmente, l’impossibile, il non già detto.
Cecil Taylor, con i suoi tumulti sembra aprire orizzonti. Chick
Corea si muove a cavallo, jazz, latin jazz ma anche duetta con Gulda,
grande interprete di Beethoven e Keith Jarrett si sdoppia, jazz
classico da una parte, il grande Bach dall’altra, E nel mondo italiano
compaiono figure come quella di Renato Sellani, jazzista ma capace
di scavare nella canzone per ridarle dignità (aveva cercato di farlo,
senza grandi risultati, in passato anche Alberto Semprini) e Danilo
Rea rilegge a modo suo il melodramma. Le sovrapposizioni sono molte.
Dave Brubeck diceva. “ Si tratta di salire sul palco ogni sera sapendo
dove sei, ma con l’idea di andare un po’ oltre”. Credo che sia un
po’ ciò che deve aver pensato Mario Rusca immaginando questo suo
nuovo lavoro, dedicato al mondo classico, ma liberato dal classicismo
e offerto all’ascoltatore attraverso una dimensione che non offende
il tema originale, se mai lo esalta, pur non partecipando interamente
alla sua rilettura, svicolando grazie ad esperienze che arrivano
da lavori precedenti. Ricordiamo che Rusca è pianista al di sopra
di ogni sospetto di consumismo: splendida tecnica, una forte passione
jazzistica sostenuta da una puntigliosa conoscenza umanistica, il
culto del suono in ogni situazione, che sia concerto o esibizione
in un club. Così Rusca prende Ravel, Mozart,Chopin, Schumann e altri
grandi li rilegge, se ne appropria e solo dopo averne assimilati
tutti gli aspetti, da quelli tecnici a quelli sentimentali, si pone
al pianoforte per interpretarli. Non brusche contaminazioni, non
insipidi quattro quarti, piuttosto un modo colloquiale quasi che
l’artista si proponesse anche l’idea di avvicinare a quella musica,
così straordinariamente concepita e quindi in parte relegata ad
una visione particolarmente attenta, un popolo più vasto. Senza
fare accademia, senza pretendere di insegnare l’amore per l’arte,
semplicemente rispondendo ad un impulso sentimentale caratterizzato
da una straordinaria tenerezza.
Ascoltiamo il “Largo” di Chopin. Romantico per sua natura e non
per assecondare la moda, Chopin scriveva in un suo diario “Nulla
mi manca per fraternizzare matematicamente con la morte”. Sono parole
leopardiane: amore e morte, Ma appare da quel “matematicamente”
la forza intellettuale di un romanticismo che esclude ogni sospiro
letterario e dichiara un appassionato legame con la vita. Prendere
quella pagina e rileggerla pare davvero impossibile. Intanto il
“cantabile” che l’autore ottiene dalla tastiera, come riproporre
una cosa tanto labile, così smisuratamente sottile e impalpabile?
Un ostacolo insormontabile che Rusca supera di slancio proprio grazie
a quella innata tenerezza che pone nel suo tocco, nel suo modo di
fraseggiare, di sfuggire alle regole senza contrasti apparenti.
E che dire dell’ “Adagio” di Schumann? Tutte le incertezze di una
fantasia a volte ingarbugliata, i fuochi improvvisi di un estro
creativo a cui fanno seguito sequenze anche disperate. Schumann
si identifica con il suo Florestano isolando sulla tastiera caratteri,
momenti lirici, altri patetici, con quella sua scrittura nuova per
l’epoca colma di un inaspettato dinamismo.
In quanto a “Gradus ad Parnassum di Debussy basti ricordare quanto
l’artista diceva: “L’attrazione che il virtuoso esercita sul pubblico
sembra paragonabile a quella che richiama le folle ai giochi del
circo. Si spera sempre di assistere a qualcosa di pericoloso: il
signor X suonerà il violino prendendo il signor Y sulle spalle o
il signor Z terminerà il suo pezzo afferrando coi denti il pianoforte”.
Rusca è della stessa idea, non vuole che la tecnica si imponga,
preferisce non afferrare coi denti il suo strumento e in una rilettura
così personale, anche vagamente autobiografica, lascia affiorare
sempre il senso di un rispetto totale: variazioni, certo, ma senza
infierire sullo spartito originale, accogliendolo con amore per
restituirlo con un tenero sentore di Rusca.
Vittorio Franchini
Notes
There has been a time, not so long ago either, where the piano dominated
all over salons in Paris and the Chopin, the Liszt (not to mention
the Ries, the Kalkbrenner, the Kummel, the Buelow, (the many who
were struggling in a series of octaves continued up to limit of
forces where everybody had to “exhibit their own bowels” (as Stravinskji
used to define these contests) at white-hot evenings at which someone
sticked to a brilliant virtuosity, others to a salon-like flow of
feelings, others to improvisations on tunes as required by the publicum.
The second half of the 800’s was running, a world of salons where
an artist was a hero and epitomized romantic ideals, somehow warrior
and somehow priest, beloved by both madams and misses suddenly captivated
by the whirl of his music. Since then the world has changed, the
piano of Clementi has turned into a keyboard (a word which also
defines a typewriting machine) and has been used in thousand manners
(unthinkable prodigality of the instrurnents!) so far offering to
the pianists different ways, maybe sometimes unfriendly, brawly
but ever fascinating, in a continuous attempt to metamorphosis or
to a steady becoming, searching for an undefined, weak and slippery
“elsewhere”.
More than others, jazzmen have contributed to open new horizons,
to explore unknown territories, to propose original rhythms bluntly
deplacing themselves from the academic tradition to give life to
new forms. And the “solo piano” never ceased to be a reference point
almost inviting the artists to new performances in that “difficult”
writing which seems to be one of the many characteristics of our
age, “Age of Haste”, so wrote Nietzsche in 1886 when prefacing “Daybreak”,
age of the undignified and sweaty rashness.
Not only, but just through the long hasty road of the “solo piano”
first appeared that break between music and music: cultivated music
from one side, entertainment music from another and finally popular
music, at the border, so it was thought, of the art.
Sure, fortresses seemed to be the labels and the artists seemed
to enjoy the possibility of performing within precise territories,
the classics, particularly the jazzmen. But in this time of “haste”
also the school classifications lost their steady look, the walls
collapsed and the styles became to be confuse, each one bound with
its world but ready to assimilate another one, to accept contaminations
looking for new and unknown possibilities by exploiting “native”
elements pertaining to the diverse.
So the “solo piano” regains the triumph: the classic accepting the
popular jazz aiming at entering academies and both of them ready
to accept all kinds of contaminations. Soon at the beginning of
the 900’s, somebody who was listening to Art Tatum could venture
new, not impossible goals for jazz music, while Fats Waller ironically
winked at somebody else by playing “a la Bach” or at “la Chopin”
in a world of blues and ragtimes.
But music moves in a hurry, looks at the past, too glorious to suffer
the forgiveness, but at the same time it looks for outlets, creates
sometimes confused situations, sometimes twisted ones ever addressed
to that “diverse” which seems to be the aim of everybody.
So, whereas the audience claps to Pollini for his splendid interpretations
of classics also takes interest for the adventures of a Nono or
a Berio and yet music merge with one another, maybe waiting for
a keyboard at last bursting into the impossible, the not previously
said.
Cecil Taylor with his uproars seems to open new horizons, Chick
Corea springs horsewise between jazz and latin jazz but also duetting
with Guida, the great Beethoven’s interpreter, Keith Jarrett splits
between classic jazz from one side and the great Bach from the other.
As to Italian jazz, figures appear like Renato Sellani, a jazzman
able to revamp dignity to simple hits (the same as Alberto Semprini
was aiming at a time ago, without great results) and Danilo Rea
reads operas in his own way. Overlappings are a lot. DaveBrubeck
used to say: “it deals with climbing the stage every night under
knowing where you are, but always aiming at going somewhat beyond!
I believe this has been what Mario Rusca was thinking about when
conceiving this new performance of his, dedicated to the classic
world but freed from any classicism and offered to the listener
through a dimension which doesn’t affect the original line, eventually
exalting it even without a full participation to its re-interpretation
and simply fudging, thanks to previous experiences gained.
Remember that Mario Rusca is a pianist far beyond any suspicion
of consumerism: a magnificent technique, a strong jazz passion supported
by a thoroughly determinated humanistic knowIedge, the cuIt of sound
in alI situations, be this a concert or a simple club recital.
So Rusca takes RaveI, Mozart, Chopin, Schumann and other greats,
reads them again, takes possession of them and only after assimilating
all aspects, from technical to sentimental ones, sits at the piano
to interpretate them. No sudden contamination, no characterless
four fourths but rather a full colloquial way as he were aiming
at leading that music so extraordinarily conceived and then partially
to a more extended listening world. This, without making any academy,
without pretending to teach love for the art but simply responding
to a fearful impulse marked by an extraordinary tenderness.
Let us listen to the “Largo” by Chopin. As far as he was a pure
romantic and not for the sake of fashion, Chopin wrote in a diary
of his: “I am short of nothing to mathematically fraternize with
death”. It deals with Leopardi’s-like words: love and death. From
that adverb “mathematically” we detect the intellectual power of
a romanticism excluding whatever literary breathing and thereby
declaring a passionate bond with life. To take this page and to
read it again seems really impossible.
Here’s the “Cantabile” the author draws out from the keyboard and
we ask: how to reproduce that fleeting, so unbelievable thin and
untouchable thing? An apparently unsurmountable hurdle, which Rusca
easily climbs over, just thanks to that built-in tenderness he puts
in his touch, in his way of phrasing, of escaping all rules without
apparent contrasts.
And what to say about the “Adagio’” by Schumann? All uncertainties
stepping out from a sometimes entangled fantasy, of the improvise
fires of creative flair also followed by desesperate sequences.
Schumann identifies himself with his Florestan through the isolation
at the keyboard of lyric, sometimes pathetic moments by means of
his writing, new for that time and full of an unexpected dynamics.
As far as it concerns “Gradus ad Pamassum” by Debussy, it is sufficient
to mention what he said: “The attraction the virtuoso exerts on
the publicum seems to be comparable with the one pulling crowds
to the circus games. People always hope to assist to something dangerous:
Mr. X will now plays violin under carrying Mr. Y on his own shoulders
of Mr. Z will end his piece grasping the keyboard with his teeth!”.
Mario Rusca sponsorizes the same idea, he doesn’t want the technique
to prevail, he prefers not to catch the keyboard with teeth and
also when interpreting a tune in so a personal, somehow autobiographical
manner, he ever Iets the sense of a total respect come to the surface;
variations, no doubt, but without hitting the original score and
simply accepting it with love and giving it back with a tender Rusca’s
smell.
Written
by Vittorio Franchini
Transl. into English by Libero Bregani
Un breve accenno
... del nuovo CD ... "buon ascolto"
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01. |
M. Ravel “Andante” in A magg. |
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dal
concerto in sol |
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Titolo
elaborazione: |
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“Ravel
forever” - 7'06" |
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02.
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S. Rachmaninoff “Andante” XVI |
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variazione
su 6 tema di F. Chopin, op. 6 |
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Titolo
elaborazione: |
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“Chopins
heart" - 6'01" |
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03.
|
W. A. Mozart “Andante” dalla sonata n. 2 |
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Titolo
elaborazione: |
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“Like
Mozart” - 4'45" |
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04.
|
F. Chopin “Largo” da improvviso in C# |
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min,
op. 29 n .20 |
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Titolo
elaborazione: |
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“Dreaming
Chopin” - 8'49" |
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05. |
E. Granados “Andantino” dalla |
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“Danza
spagnola” n. 5 “Andaluza” |
|
|
Titolo
elaborazione: |
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“2010
Variation” - 5'49" |
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06. |
L. V. Beethoven dalla sonata “Patetica” |
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n. 5
movimento in Ab magg. |
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|
Titolo
elaborazione: |
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“Recalling
Beethoven” - 6'14" |
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07. |
G. Fauré “Adagio”, Pavane |
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Titolo
elaborazione: |
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“Pavane
idea” - 7'41" |
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08. |
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Titolo
elaborazione: |
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“Sweet
dream” - 7'26" |
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09. |
C. Debussy “Gradus ad Parnassum”,
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|
|
variazione |
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Titolo
elaborazione: |
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“Doctor
studio” - 7'14" |
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10. |
M. Ravel “Pavane pour une infante
|
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|
defunte” |
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Titolo
elaborazione: |
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“Unforgettable
Ravel” - 5'20" |
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11. |
Mario Rusca, Largo “Armonia e
|
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|
Disarmonia”
- 6'34" |
Etichetta
GOLDEN JAZZ
Catalogo N°G CD J 1949
Anno 2011 |
Prodotto dai
Massimo Monti
Musicisti Associati Produzioni M.A.P.
Distribuzione
M.A.P. |
questo
prodotto è acquistabile
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