MIKE
ABRATE
C’erano una volta i crooner,
ovvero quei cantanti che usavano toni rilassati, con voci ombreggiate,
pigramente sensuali e gli americani impazzivano per Bing Crosby,
il cui stile vocale era morbido e intimo anche se legato, sommessamente,
al jazz. Ricordiamo lui quasi come un capostipite, ma la canzone
americana era affollata di affabulatori a partire da quell’Al Jolson
divenuto famoso come prima voce del cinema, quando Hollywood, scoperto
il sonoro, lo aveva lanciato in “The Jazz Singer” e con lui altri
come Harlan Lattimore, come Herb Jeffreys o come Sy Oliver, ricordato
più come trombettista e arrangiatore e fra le voci femminili Peggy
Lee, relegando Ella, Billie e Sarah ad altri, più eccitanti territori,
anche loro legate alla canzone, ma in modo jazzistico. I nomi dei
primi ormai persi nella nebulosa della storia della canzone americana
che aveva poi trovato in Frank Sinatra il suo interprete principe,
l’unico capace di sopravvivere ai tempi, lasciando una straordinaria
lezione vocale. Ma la voce di Sinatra che resisteva alle mode non
era bastata a tenere viva la tradizione di quel canto rilassato,
vibratile, vagamente swing, colmo di una naturale intimità che poteva
far pensare all’ascoltatore di poter anche lui cantare in quel modo.
Quasi tutti baritoni, più o meno leggeri, tutti portatori di un
american dream che ricordava il periodo della working class, della
depressione economica, del New Deal, degli scritti della lost generation,
da Fitzgerald a Hemingway, a Faulkner. Un lungo periodo colmo di
vicende straordinarie che nella canzone, come nella mania per il
ballo, trovava la speranza, anche quell’orgoglio americano che,
a volte, le vicende della storia avevano frustrato. Poi il silenzio:
i crooner? Cose di altri tempi. La musica aveva percorso altre strade,
aveva inventato crocicchi avventurosi, anche il canto si era arricchito
di timbri e di suoni nuovi, diversi, lontani da quel passato glorioso.
Sì, Sinatra era rimasto sulla scena a lungo, ma era l’unico e poi
rappresentava una eccezione per quella sua classe che superava ogni
barriera, per il cinema, per quella sua fama di battagliero donnaiolo.
I crooner? Sepolti dagli eventi, dalle mode, di loro poco era rimasto
anche nelle cronache di chi al passato si rivolgeva con nostalgia.
Poi, ad un tratto, dapprima come un revival, forse senza sbocco,
un rigurgito di antiche passioni, l’idea di cantare in quel modo
ombroso, pigro e insieme dinamico era riaffiorata: Mel Tormé, Johnny
Hartman, Tony Bennett, avevano ripreso le fila dei Crosby, si erano
affacciati in una dimensione che ricorda il passato pur rimanendo
legata al presente. Ma anche loro erano rimasti un fenomeno di nicchia.
Bravi, acclamati, ma mai popolari come le star di un tempo. E la
loro presenza poteva anche sembrare un ritorno nostalgico ad un
passato ormai chiuso, superato da nuovi stili, nuove mode. Ma quel
piccolo, dinamico genio che ha da sempre animato i crooner, in realtà
non è mai morto. Così in un’epoca come la nostra che per nulla ricorda
quella del sogno americano, dominata dalla tecnica, dalla paura,
da mostri altri venuti coi giorni nuovi ad alimentare tremori e
fantasie, ecco riaffiorare quello splendido, sofisticato, agile
modo di cantare. Difficile che il passato ritorni, eppure eccolo
che si mette in mostra, riprende la tradizione, offre una nuova
lezione. E un Mario Biondi colma i teatri cantando “ Sweet and Lovely”,
“ Night and Day”, “I’ll Remember April”. E allora nasce il desiderio
di saperne di più, di scoprire, anche da noi, cantanti di nicchia
che si sono da sempre espressi in quel modo dolceamaro. Ed ecco
il nome: Mike Abrate, avvocato prima che cantante. Gli appassionati
di jazz lo conoscono per le sue molte apparizioni nel mitico Studio
7, in corso Venezia a Milano, rifugio di un certo Tito Fontana,
industriale, pianista, compositore, poeta che apriva il suo cenacolo
agli amici musicisti, da Sante Palumbo a Renato Sellani, da Gianni
Basso a Chet Backer, a Steve Lacy e a tanti altri, e Abrate con
loro a rinverdire il passato, senza ombre nostalgiche, senza passioni
languorose, piuttosto con l’idea che quel modo di cantare abbia
in sé il seme della sopravvivenza. Canta “ alla Sinatra”, ma il
suo è un modo decisamente originale di rifarsi al maestro, da quando
era un ragazzo, una passione che è andata affinandosi col tempo,
concerti, manifestazioni, sedute semisegrete in quello Studio 7
dove tutto sapeva di jazz ed ora un disco, 27 canzoni fra le più
note cantate con una passione ed un dinamismo davvero singolari,
capaci di superare ogni schema temporale e rendere di nuovo attuale
quella musica, quel genere che credevamo estinto.
Intanto la voce, baritono anche la sua, priva di artifici, disinvolta,
comunicativa, affabile. Abrate interpreta la grande canzone americana,
Porter, Kern, Warren, con una tessitura chiara, con un relax al
limite della pigrizia che rimanda a fantasie jazzistiche. Ha una
voce colma, capace di infondere immagini, di dare sostanza al sogno,
ha un modo disinibito, noncurante di cantare che lo rende subito
amico, imita i grandi del passato, ma ne rilegge le sfumature legandole
a giorni diversi, immaginando sogni diversi con istintiva musicalità.
La sua voce baritonale disegna la frase musicale valendosi di sincopi,
di attimi di tensione subito seguiti da una sorta di rilassata distensione,
i toni stemperati da passaggi di registro. E anche gli arrangiamenti,
dove a volte si avverte la mano geniale di Sante Palumbo, sono spesso
quelli originali: un modo pericoloso per affrontare il confronto,
ma non lo si nota, perché Abrate rende suo anche quello che suo
non dovrebbe essere. Così come le canzoni, evergreen che in qualche
modo dovrebbero anche aver stufato a quasi un secolo di distanza
dalla loro nascita. E, invece, ecco temi che grazie alla vocalità
di Abrate, assumono anche contorni nuovi, senza snaturare la loro
origine, al contrario impreziosendola, rendendola al presente. Un
disco che si potrebbe definire “il passato al presente” e dove emerge
la personalità di un cantante di nicchia, ma con una dimensione
internazionale, capace di rielaborare il tempo, di aprire una falla
temporale, di restituire la gioconda parentesi di quel felice american
dream.
Vittorio Franchini
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Once upon a time, there were the Crooners. Those singers who used
relaxed tones with shady, lazily sensual voices, The Americans simply
adored Bing Crosby, whose vocal style was soft and intimate, though
intrinsically rooted in Jazz. We remember him almost as if he had
started it all, but the world of the American song was full of story-tellers:
at the beginning there was Al Jolson, who became famous as the first
voice of cinema when Hollywood launched him in “The Jazz Singer”
after the arrival of the sound era. Together with Jolson there were
others like Harlan Lattimore, Herb Jeffries, or Sy Oliver; the latter
remembered more for his work as trumpeter and arranger. Among the
female voices there was Peggy Lee, or Ella, Billie, Sarah, and the
others who inhabited the somewhat more exhilarating territory of
the Jazz song. Many of these names have long since been lost in
the mists American song history. The genre’s main interpreter had
become Frank Sinatra: the only one able to survive the test of time,
leaving an extraordinary vocal legacy. But that Sinatra’s voice
outlasted fleeting trends wasn’t enough to keep the tradition alive:
that relaxed, richly harmonic, vaguely swing way of singing, so
full of intimacy that the listener himself might actually believe
that he could sing like that. They were nearly all more or less
light baritones, each bearing witness to the American Dream. A dream
which reminisced, smacked of the working class, the Great Depression,
the New Deal, the writings of the Lost Generation, from Fitzgerald
to Hemingway and Faulkner. It was a long period full of extraordinary
events and these found hope, not only in the craze for dancing,
but also through song. A hope tied to that American pride which
at times the course of history had crushed. And then? Silence. The
Crooners? A thing of the past. Music was heading elsewhere, it had
invented new adventurous combinations. Singing, too had assimilated
new sounds and tones; they were different and far-removed from that
glorious past. It’s true that Sinatra had been on the scene for
a long time, but he was the only one, and an exception: with his
class he overcame every obstacle. Then, of course, there was the
cinema, and his reputation as a hard-line womanizer. The crooners?
Buried by events and trends. Not much was left of them. Not even
for those who looked to the past with nostalgia. Then all of a sudden
there was a sort of revival perhaps with no future, but nevertheless
it meant the re-emergence of old passions: the idea of singing in
that shadowy, lazy, yet dynamic way had resurfaced: Mel Tormé, Johnny
Hartman, and Tony Bennett picked up the thread where Crosby had
left off. Their dimension was reminiscent of the past but still
tied to the present. However, they too were a cult, a niche phenomenon.
They were good, acclaimed, but never as popular as the stars of
the time. Perhaps they seemed merely nostalgic. As if they were
seeking out a lost past; an era surpassed by new styles, new trends.
The truth is, that compact yet vital spirit which always inspired
the crooners, had never actually died. So it is, in an age like
ours, which doesn’t in the least resemble the American dream, an
age dominated by technique, by fear, by other latter-day monsters
come to feed our anxieties and dreams, that once again this splendid,
sophisticated, agile way of singing has re-surfaced. It is difficult
for the past to return and yet here it is: ours for the taking;
picking up the tradition and offering it anew.
A certain Mario Biondi sells out theatres singing “Sweet and Lovely”,
“Night and Day”, “I’ll Remember April”, and there is a desire to
know more, we want to discover niche performers, cult singers who
have always expressed themselves in that bitter-sweet way. And this
brings us to the name: Mike Abrate, lawyer and then singer. Jazz
lovers know him from his many appearances in the legendary Studio
7 in Corso Venezia in Milan, refuge of Tito Fontana, industrialist,
pianist, composer and poet, who opened its doors to musician friends
from Sante Palumbo to Renato Sellani, from Gianni Basso to Chet
Baker, Steve Lacy and many more. Together with them, Abrate rekindles
the past, unhampered by ghosts of nostalgia or a languorous passion,
but rather fuelled by the notion that this way of singing is in
itself a refuge: home to survival. He sings “like Sinatra” but his
is a decidedly original way to “imitate” the maestro. Since he was
a boy, Abrate has nurtured and perfected his passion: concerts,
performances, half-secret sessions in that Studio 7 where everything
tasted of jazz and now a CD. 27 of the most well-known songs sung
with a truly singular passion and dynamism, which steps outside
any recognisable time frame and makes this genre we thought extinct
contemporary again. His voice, too is a baritone, without artifice,
relaxed, communicative and warm. Abrate’s performances of the great
American song, Porter, Kern, Warren, have a clear tessitura and
are relaxed to the point of laziness which brings to mind dreams
of jazz. It is a full voice, inspiring images, adding substance
to dream. He is uninhibited, nonchalant, even friendly. He imitates
the greats of the past, but in doing so, he rereads their subtleties
in the light of different times, imagining different dreams with
instinctive musicality. His baritone voice creates musical phrases
through syncopation, moments of tension immediately followed by
a sort of relaxed relief, and the melded tones of changes in register.
The arrangements too, where you can occasionally hear the genius
of Sante Palumbo at work, are often the original ones: a dangerous
path to take, but it stands up to the comparison because Abrate
appropriates himself even of that which ought not to be his. In
a sense, we should be fed up with these evergreen songs nearly a
century after they were written, but instead Abrate’s vocal skills
give their themes new shape. Never distorting their origin, rather
embellishing them with the present. Actually, this CD could be described
as “the past in the present”, and as a place where the personality
of a niche singer emerges on an international scale, breaching time
itself to open up a pathway to the happiness of bygone days.
Vittorio Franchini
(translation by Simon Marsh)
Un
breve accenno ... del nuovo CD ... "buon ascolto"
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01. |
Witchcraft (C. Coleman, 1957) - 2'41"
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|
02.
|
As Time Goes By (H. Hupfeld, 1931) - 3'22" |
|
03.
|
Little White Lies (W. Donaldson, 1930) - 1'50" |
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04.
|
Fly Me To The Moon (B. Howard, 1954) - 2'48" |
|
05. |
You Make Me Feel So Young (J. Mirow, 1946) - 2'07" |
|
06. |
Fools Rush In ( R. Bloom, 1940) (orch.) - 2'42" |
|
07. |
Day In - Day Out (R. Bloom, 1939) - 1'59" |
|
08. |
The More I See You (H. Warren, 1945) - 2'42" |
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09.
|
Night
And Day (C. Porter, 1932) - 2'39" |
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10. |
All The Things You Are (J. Kern, 1939) - 1'45" |
|
11. |
Begin The Beguine (C. Porter, 1935) - 2'57" |
|
12.
|
Darn That Dream (J. Van Heusen, 1939) - 2'44" |
|
13.
|
I’ve Got You Under My Skin (C. Porter, 1936) - 3'11" |
|
14.
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I Had A Craziest Dream (H. Warren, 1942) - 2'24" |
|
15.
|
Rom This Moment On (C. Porter, 1950) - 3'39" |
|
16.
|
No One Else But You (T. Fontana, 1988) - 3'28" |
|
17.
|
Don’t Blame Me (J. Mc Hugh, 1933) - 2'56" |
|
18.
|
The Girl From Ipanema (A. C. Jobim, 1963) - 1'36" |
|
19.
|
Laura (D. Raksin, 1945) - 4'05" |
|
20.
|
I’m Old Fashioned (J. Kern, 1942) - 2'19" |
|
21.
|
I’ll Be Seeing You (S. Fain, 1938) - 2'20"
|
|
22.
|
Body And Soul (J. Green, 1930) - 5'12" |
|
23.
|
The Man Who’s In Your Heart (from “Maturity”) (M. Abrate,
1995) - 2'.26" |
|
24.
|
Fools Rush In (R. Bloom, 1940) (band) - 2'52" |
|
25.
|
Strangers In The Night (B. Kaempfert, 1966) - 2'37" |
|
26.
|
My Way (J. Revaux, 1967) - 3'36" |
|
27.
|
New York, New York (J. Kander, 1977) - 3'01" |
Etichetta
NEW SENSATION
Catalogo N°NS CD 2009
Anno 2011 |
Produzione esecutiva
di Massimo Monti
Musicisti Associati Produzioni M.A.P.
Distribuzione
M.A.P. |
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