"Bartok, Debussy, Scriabin"

 

DANIELA MANUSARDI


Daniela Manusardi, concertista di pianoforte e compositrice, ha iniziato fin da giovanissima gli studi di pianoforte e composizione presso il Conservatorio “G.Verdi” di Milano, dove si è diplomata a pieni voti in pianoforte nel 1999 sotto la guida del Maestro Annibale Rebaudengo e, successivamente, in Composizione nella classe del Maestro Mario Garuti.
Dal 1999 al 2002 ha proseguito il suo perfezionamento pianistico con Carlo Levi Minzi. Nel 2002 è stata ammessa alla prestigiosa Accademia Musicale Statale di Trossingen in Germania, dove ha conseguito con il massimo dei voti la Laurea di Secondo Livello in pianoforte e sta ultimando il Solistische Ausbildung nella classe del Prof. Tomislav Baynov, e la Laurea di Secondo Livello in Klavier-Kammermusik nella classe del Prof. Akos Hernàdi.
Ha arricchito la sua formazione con Masterclass tenute da importanti figure del pianismo internazionale quali Rudolf Kehrer, Livia Rév, Karl-Heinz Kaemmerling, e Johann Van Beek.
Considerata come un “brillante esponente del contemporaneo concertismo classico“ (Maurizio Franco) svolge attività concertistica dal 1994 sia in veste di solista, sia in gruppi di musica da camera (è membro del tedesco “Baynov-Piano-Ensemble“, che nel 2007 è stato incluso insieme ad artisti come Martha Argerich e Arcadi Volodos nel prestigioso CD “ The Symphonic Steinway “) nell’ ambito di numerosi festival internazionali, come il “41°Festival internazionale di musica da camera di Cervo 2004” e il “44° Festival internazionale di musica da camera di Cervo 2007”, Festivals Dino Ciani, Festival e concerti della Valtidone, Steinway Musiktage Festival e Bechstein Festival in Germania, “14° Stagione Atelier Musicale” alla Palazzina Liberty di Milano, “ Festival Zilele muzicale Targumuresene ” presso la sala grande della Filarmonica di Stato di Targu Mures, in Romania e altri, in Europa, riscuotendo vivo successo di pubblico e di critica.
Il suo repertorio spazia da Bach sino agli autori contemporanei, con una particolare predilezione per la letteratura musicale del primo Novecento europeo; Daniela Manusardi è nota al pubblico per le sue interpretazioni di autori come Debussy, Ravel, Bartòk, Schoenberg, Berg, Rachmaninov, Scriabin.
Ha effettuato registrazioni discografiche radiotelevisive in Italia e in Svizzera per la “Radio Televisione della Svizzera Italiana”, Limenmusic.



Daniela Manusardi is a pianist and a composer. She was first taught piano and composition at the Conservatorio “G. Verdi” in Milan, where she obtained her piano degree in 1999 and her composition degree in 2005. After her degree, she specialized with Carlo Levi Minzi. In 2002 she was admitted at the Trossingen Music High School (Germany), where she obtained her piano Master - degree in 2004. Since 2006 she has been specializing as a soloist with Tomislav Baynov and in chamber music with Akos Hernádi.
She also took part at several master-classes with world-famous pianists, like Rudolf Kehrer (a pupil of Heinrich Neuhaus’), Karl-Heinz Kaemmerling, Livia Rev, und Johann Van Beek.
Daniela Manusardi was defined a “brilliant classical pianist”. She has been giving concerts since 1994, both as a soloist and as a member of chamber music groups. She is a member of the Baynov Piano Ensemble. She took part at different national and international music festivals, such as the 41st and the 44th Cervo international chamber music festival, the Valtidone festivals, the Dino Ciani festival, the Ascoli Piceno festival, the “Steinway Musiktage”, the Bachstein festival, the 14th concert season of the Atelier Musicale in Milan, the Neumarkt international music festival and many others, both in Italy and in Germany, Switzerland, Rumania.
Among Daniela Manusardi’s manifold activities there are also radio- and video-recording in Italy and Switzerland, Limenmusic.



Daniela Manusardi, Pianistin und Komponistin, erhielt ihren ersten Klavier- und Kompositionsunterricht am Conservatorio „G. Verdi“ in Mailand; dort hat sie 1999 ihren Klavierabschluss unter der Leitung von Annibale Rebaudengo mit der Bestnote und 2005 den Kompositionsabschluss unter der Leitung von Mario Garuti erlangt.
1999 bis 2002 hat sie sich unter der Leitung von Carlo Levi Minzi im Fach Klavier fortgebildet. 2002 wurde sie an der Staatlichen Hochschule für Musik Trossingen aufgenommen; hier machte sie 2004 ihren Abschluss im Fach Klavier (Künstlerische Ausbildung). Zurzeit studiert sie an dieser Musikhochschule weiter im Fach Solistische Ausbildung (Klavier) unter der Leitung von Tomislav Baynov und im Fach Klavier-Kammermusik unter der Leitung von Akos Hernàdi.
Sie nahm an mehreren Masterclasses mit weltberühmten Pianisten wie Rudolf Kehrer, Karl-Heinz Kaemmerling, Livia Rev und Johann Van Beek teil.
Daniela Manusardi gilt als „brillante klassische Konzertmeisterin“ (Maurizio Franco, Musica Oggi): Sie tritt seit 1994 als Solistin und in Kammergruppen auf. Sie ist festes Mitglied des Baynov-Piano-Ensembles. Sie nahm an mehreren nationalen und internationalen Festivals teil, etwa am 41. und am 44. Internationalen Kammermusikfestival in Cervo, an den Festivals und Konzerten der Valtidone (Italien), am Dino-Ciani-Festival, am Ascoli-Piceno-Festival, an den Stenway-Musiktagen, am Bechstein-Festival, an der 14. Konzertreihe des Atelier Musicale (Mailand), am Neumarkter Internationalen Musikfestival und vielen anderen in Italien, Deutschland, Rumänien und der Schweiz.
Ihr Repertoire erstreckt sich von Bach bis heute, mit besonderer Vorliebe für die musikalische Produktion Anfang des 20. Jahrhunderts.
Zur musikalischen Tätigkeit von Daniela Manusardi zählen Rundfunk- und Fernsehaufnahmen in Italien und der Schweiz für den Rundfunk der Italienischen Schweiz,Limenmusic.



OLTRE IL NOVECENTO
UN VIAGGIO INTORNO AL PIANO

A guardarlo bene, soprattutto nella versione gran coda, il pianoforte sembra davvero un vascello su cui imbarcarsi per viaggi avventurosi, e Liszt, in un suo articolo del 1837 sulla Gazette Musicale, dichiarava che ‘il pianoforte è per me ciò che la nave è per il marinaio e il cavallo per l’arabo’.
L’Ottocento era stato un secolo di grandi viaggi, tanto per avventura quanto per conquista coloniale, ma alla fine del secolo, grazie anche alle Esposizioni Universali, le culture ‘altre’ compivano il viaggio in senso inverso per conquistare gli spiriti più attenti del mondo occidentale; così nel 1889, a Parigi, un gruppo di suonatori balinesi colpì profondamente la fantasia del giovane Debussy, che dal loro esempio ricevette lo stimolo per ripensare la musica su basi nuove.
Stavolta però il pianoforte divenne non un mezzo per incantare o stupefare il pubblico, ma una sonda per perlustrare gli abissi della musica: Debussy, dopo aver estratto dallo strumento tutti i colori più fantasiosi e le più seducenti preziosità armoniche, alla fine della vita e della carriera rielabora il suo stile svelando inaspettate consonanze col mondo musicalmente più estremo che lo circonda.
Il secondo libro dei Preludi è pubblicato nel 1913, e il 29 maggio dello stesso anno Igor Stravinsky aveva gettato il suo guanto di sfida nell’arena con La Sagra della Primavera, ma l’anno prima, il 9 luglio a Bellevue, Stravinsky e Debussy avevano eseguito il balletto in una trascrizione a quattro mani (al termine i due erano troppo emozionati per parlare, dopo tanta e tale musica). Facile pensare che il francese, da sempre onnivoro raccoglitore di suggestioni, fosse rimasto impressionato dall’incredibile capacità organizzativa del russo, in grado di ricavare le più audaci tessiture dalla scomposizione di ‘normali’ accordi sovrapposti.
Debussy molto spesso si comporta in quest’opera come il giocatore di scacchi che si diverte a creare sulla scacchiera i più complicati problemi col minimo indispensabile di pezzi, a volte anzi cacciandosi di proposito in un vicolo cieco per mettere alla prova la sua capacità di districarsi. A volte il gioco è scoperto, come in Les Tierces Alternèes, con quell’inesausto rincorrersi della semplice formula armonica in tutti i registri della tastiera, altre volte invece è più velato, come in Canopes, quasi una rievocazione delle Danseuses des Delphes ma coi profani fuori dal tempio, perché questo rito lo possono seguire solo le anime purificate dal fuoco sacro.
Ma il viaggio musicale in questi preludi pare allo stesso tempo prendere congedo dal passato, con le Bruyeres care ai pittori impressionisti e la Ondine flessuosa entrambi rielaborati in un clima fuori dal tempo e dalla moda, e preannunciare il futuro: così il General Lavine-Eccentric segna l’ingresso trionfale della musica circense nella quale sguazzerà il Gruppo dei Sei del dopoguerra- anche se il solito pre-minimalista Satie si aggira già nei paraggi meditando l’irriverente balletto Parade di tre anni dopo-, l’omaggio al dickensiano Pickwick si traduce in una ghignante satira, come se ‘Claude de France’, per dirla con D’Annunzio, volesse vendicare musicalmente Giovanna d’Arco, e così via in un procedere insieme rigoroso e libero che trova anche una sorta di corrispondenza speculare inversa fra i brani, col primo che replica al dodicesimo e così via.
Non casualmente, i due preludi che aprono e chiudono il libro guardano nello stesso tempo al passato e al futuro: Brouillards evoca le atmosfere di fine Ottocento ma Feux d’Artifice le distrugge e rinnega attraverso passi quasi rumoristici come all’inizio, con puntute seconde minori e glissando che paiono voler varcare in un sol colpo la linea di confine tra suono e rumore.
Quasi per misteriosa congiunzione astrale, il 12 marzo dello stesso 1912 in cui Debussy suonava la Sagra con Stravinsky, un appena quindicenne Henry Cowell presentava al San Francisco Music Club vari brani di sua composizione dai titoli sconcertanti- Night Sounds, The Ghouls Gallop, Weird Nights, ad esempio- cui corrispondevano suoni altrettanto sconcertanti, fatti di pugni e avambracci sulla tastiera, i noti tone clusters, e di esecuzione sulla cordiera, mentre sulla costa orientale Charles Ives stava lavorando alla sua celebre Concord Sonata, pubblicata nel 1914.
Sembra proprio che tutti questi geni usassero nello stesso momento il pianoforte come moderni alchimisti, per cavarne effetti e tessiture fino ad allora ignorati o cancellati dalla cultura ufficiale.


Bartòk, dal canto suo, aveva lavorato con le armi dell’etnomusicologo per nobilitare quell’ aspetto della cultura ungherese fortemente connotato. I viaggi di ricerca gli avevano svelato una cultura ancora tutta da esplorare, con quelle peculiarità melodico-armoniche adattissime a fungere da munizione per la propria personale visione.
Bartòk dimostra proprio nelle Improvvisazioni su canti popolari ungheresi (del 1920) nelle quali torna, ora citato ora quintessenziato, lo stilema lisztiano che consiste nel prendere una melodia famosa e riprodurla circondandola di ghirlande di note, arpeggi e fioriture, fatto particolarmente chiaro nelle parafrasi da opere come quella notissima sul verdiano Rigoletto. Qui invece il predetto stilema viene ricomposto da una diversa prospettiva con effetto dirompente, e viene mutato di senso grazie ad una scrittura angolosa, antisentimentale e antiretorica, dove- come avviene nel quinto pezzo- le seconde minori che avevano stuzzicato Debussy deflagrano allo scoperto alternandosi con quinte perfette evocative della musica rurale, o dove nel settimo pezzo, non a caso scelto come omaggio a Debussy per un numero commemorativo della Revue Musicale, in cui il tema popolare veleggia fra tessuti sonori memori della Cathédrale Engloutie ma spogliati di qualunque suggestione vaporosa.
La Grande Guerra aveva definitivamente ucciso il mondo di Melisenda e delle monetiane ninfee, e se il musicista francese era morto durante l’ultima più cruenta fase, il suo collega ungherese si era sobbarcato il difficile incarico di salvare quanto era possibile della propria cultura per farne omaggio al mondo intero, senza mai chiudersi in un folklorismo di maniera da salotto buono piccoloborghese, bensì cercando sempre nuove suggestioni sonore ai confini del rumoristico, tanto che cinque anni dopo chiese proprio a Cowell il permesso di usare i tone clusters in alcune sue composizioni.


Nel mondo della Belle Epoque che andava a passo di danza verso il proprio suicidio pareva fuori posto uno come Scriabin, molto meno a suo agio del compagno di studi Rachmaninov in un ambito ancora ‘salottiero’ che si beava di virtuosismi pianistici ed esotismi compositivi, e insieme molto più moderno nel suo flirtare con la teosofia, nel suo immaginare sinestesie musicali e visive con una commistione di elementi- suoni, colori, danze, proiezioni e quant’altro- che anticipa la attuale contaminazione postmoderna di almeno sette decenni.
Anche lui liquida il pianismo di tipo romantico o tardo-romantico che si era via via impoverito, ma lo fa con una procedura carica di gogoliana ironia: il Preludio e Notturno per la sola mano sinistra si incaricano di ricostruire un mondo tutto tramato di languidi arpeggi, dolci melodie e sommessi accompagnamenti, i quali però, se eseguiti normalmente dalle due mani, potrebbero risultare quasi scontati. Scriabin, affida tutta la scrittura musicale ad una sola mano, seppur con tutte le difficoltà tecniche del caso, e conferisce al brano un senso di pienezza e corposità sonora rara, carica di tutte le nuances armoniche necessarie per esaltare la linea melodica.


Il viaggio, naturalmente, continuerà prevedendo come tappe il pianoforte preparato di John Cage, il well tuned piano di La Monte Young, la straziante ed impossibile riproposta di mondi musicali perduti fatta da John Adams, oppure nell’ambito jazzistico l’africanità incrociata con la modernità del super virtuoso afro-americano Cecil Taylor, insieme diplomato al conservatorio e studioso di musica africana, ma tutto è partito da qui, da questa volontà di prendere il pianoforte nella sua accezione di mobile destinato ad aumentare il prestigio di chi lo possiede e/o lo suona per trasformarlo in laboratorio continuo di invenzioni e scoperte cariche di passato e insieme gravide di futuro.

Francesco Chiari



BEYOND THE 20TH CENTURY
A JOURNEY AROUND THE PIANO

If you take a closer look at it, especially the ‘Grand’ variety, the piano does look like a vessel to sail on for adventure-packed journeys; Liszt himself, in an 1837 article for the Gazette Musicale, stated: ‘The piano is for me what the ship is for the sailor or the steed for the Arab’.
The 19th century had been a century of world-wide travels, both for spirit of adventure and for colonial conquest, but at the end of the century – courtesy of Universal Exhibitions – ‘different’ cultures travelled the opposite way to conquer the most attentive spirits in the Western world. In 1889 Paris a group of Balinese players set fire to young Debussy’s fantasy, who took after their example to reinvent music almost from scratch.
This time, the piano wasn’t a medium to cast a spell on an audience or leave them goggle-eyed, but a sound to fathom musical abysses. Debussy – after having spent a lifetime evoking from his instrument the most imaginative colours and the most charming harmonic jewels – at the very end of his life and his career reshapes his style, unveiling surprising consonances with the most radical music around him.
The second book of Préludes was published in 1913, the very year Stravinsky on May 29th threw his gauntlet with The Rite of Spring; the year before, at Bellevue, on May 9th, Stravinsky and Debussy had played the ballet in a piano duet transcription (at the end both of them, overwhelmed by such music, were unable to speak). It’s easy to assume that Debussy, as usual a tireless collector of hints, was impressed by his Russian counterpart’s incredible compositional skill, which enabled him to extract the most daring textures from ‘ordinary’ superimposed chords.
Several times in this work we find Debussy behaving like a chess master who takes great pride and joy in creating on the chessboard the most intricate problems with a minimum of pieces, sometimes even painting himself into a corner to test his skilfulness in sorting out that tricky situation (Houdini who ties his wrists all by himself). Sometimes we can see what he’s conjuring up, like in Les Tierces Alternées, with that simple harmonic formula playing hide-and-seek all over the keyboard, but other times it’s more difficult to see through, like in Canope, which fondly recalls Danseuses de Delphes but this time with laity outside the temple, for only who passed through the sacred fire can witness this rite.
The musical journey in these Préludes seems to take leave from the past, with the Bruyères beloved by Impressionists painters and the supple Ondine, who look like inhabitants of a world beyond time and fashion, and at the same time to foresee the future: General Lavine – eccentric triumphantly heralds circus music, in which after the Great War Le Six will wallow – although the pre-minimalist Satie was already hovering around the block, mentally planning the iconoclastic ballet Parade which was created three years later; the homage to the Dickensian character Pickwick turns out to be a sneering satire of British hypocrisy, as if ‘Claude de France’ (to quote D’Annunzio) wanted to avenge Joan of Arc, and so on and so forth with a musical process at once stern and free, in which we even find a sort of mirror-reflection between these preludes, the first mirroring the twelve etc.
It is not by chance that the opening and closing preludes look simultaneously backward and forward: Brouillards evokes late 19th century atmospheres, but Feux d’Artifice destroys and denies them with almost rumbling passages like the one at the beginning, where spiky minor seconds and glissandos seem to cross in one fell swoop the line between sound and noise.
As in a mysterious astral conjunction, on March 12th of that year 1912 in which Debussy played the Rite with Stravinsky, a 15-years-old Henry Cowell introduced at San Francisco Music Club several of his own pieces, whose disquieting titles – Night Sounds, The Ghouls Gallop, Weird Nights – were matched by disquieting sounds, with fists and forearms on the keyboard (the notorious tone clusters) and plucking of strings inside piano; at the same time, on the East Coast Charles Ives was working on his famous Concord Sonata for piano, published in 1914.


Bartók, in his own peculiar way, used ethnomusicologist’s tools: he travelled by and large his country – Hungary – and came across a cultural world which still waited for being explored. The composer profitably took inspiration from those melodic and harmonic peculiarities, as he demonstrates in his Improvisations on Hungarian peasant songs (1920). There we can find again, either quoted or evoked, the Lisztian pattern of playing a well-known melody with a flourishing array of garlands of notes, arpeggios and embellishments, as we can see very clearly in Liszt’s operatic paraphrases like the very famous one on Verdi’s Rigoletto. Bartók, on the contrary, reshapes the aforementioned stylistic pattern from a different angle with devastating effect, thanks to a spiky, anti-sentimental and anti-rhetoric way of writing through which nothing seems the same: in the fifth improvisation, those minor seconds which tickled Debussy’s fantasy now burst out, alternating with open fifths redolent of folk music, while in the seventh one – not surprisingly chosen as a homage to Debussy in a special issue of the Revue Musicale – the peasant’s theme sails through sonic landscapes reminding us of the Cathédrale Engloutie, but without any dreamy suggestion.
The First World War definitely destroyed the world of Mélisande and Monet’s water-lilies, and if the French musician died during the war’s final, harshest phase, his Hungarian colleague took upon himself the forbidding task to save everything was possible of his own culture to make it known to the whole world: therefore he never secluded himself in a bogus folkloric style good enough for petit bourgeois parlours, but always searched for new sonic combinations, so much so that five years later he even asked Henry Cowell for the permission to use tone clusters in his own compositions.


The Belle Epoque which danced while sinking down seemed to have no room for someone like Scriabin, who was much less at ease than his schoolmate Rachmaninov in a musical environment still geared to a ‘salon’ music garnished with flashy piano virtuosities and exotic reminiscences, and at the same time much more modern by flirting with theosophy and conceiving musical and visual synesthesias whose medley of various elements- sounds, colours, dances, projections and the like- anticipates post-modernism by almost seven decades.
He too disposes of that Romantic and Late Romantic piano style which had gradually fallen on hard times, but he does it with almost Gogolian irony. Its Prelude and Nocturne for left hand only take care to recreate a simpering world of waving arpeggios, sweet melodies and subdued accompaniments, which anyway, if played by both hands, could appear phoney and trite. By shouldering the whole musical burden on one hand, the link one, and in spite of inevitable technical difficulties, in this piece Scriabin attains a full sound and a musical density containing all harmonic nuances required to emphasize the melodic line.


Of course, the journey will not stop and among its stages we will find Cage’s prepared piano, La Monte Young’s well tuned piano, John Adams’s heartrending and impossible unearthing of lost musical worlds, not to mention in jazz field the cross-breeding of Africanism and Modernism in the style of the African-American pianist Cecil Taylor – who is graduated at the Academy of Music, though. Everything, however, started here, from this will to take the piano as a piece of furniture which greatly increases the owner’s prestige and turn it into a perennial workshop of inventions precariously balanced between past and future.

Francesco Chiari



Jenseits des 20. Jahrhunderts
Eine Reise ums Klavier

Beim genaueren Hinsehen sieht ein Klavier, und besonders ein Flügel, tatsächlich aus wie ein Schiff, mit dem man nach abenteuerlichen Reisezielen losfahren kann. Selbst Liszt erklärte in einem von ihm 1837 für die Gazette Musicale verfassten Artikel: „Das Klavier ist für mich, was für den Seemann das Schiff und das Pferd für den Araber ist.“
Im 19. Jahrhunderte hatten mehrere Überseereisen zum Zweck der Eroberung und Kolonialisierung ferner Länder und Kulturen stattgefunden, doch unternahmen diese ‚anderen’ Kulturen um die Jahrhundertswende eine Rückreise und eroberten die aufmerksamsten Geister des Abendlands. Zum Beispiel wurde Debussy 1889 in Paris von einer Gruppe balinesischer Spieler so tief beeindruckt, dass er einen neuen Impuls bekam, um seine Musik auf einer grundsätzlich neuen Basis zu gründen.
Diesmal diente das Klavier jedoch nicht dazu, das Publikum zu bezaubern bzw. zu erstaunen, sondern, wie ein Lot, zur Erforschung musikalischer Tiefen. Debussy hatte die fantasievollste Kolorite sowie die kostbarsten und verführerischsten Harmonien aus dem Klavier gewinnen können. Jetzt, am Ende seines Lebens und seiner Karriere, modifiziert er seinen Stil und zeigt unerwartete Ähnlichkeiten mit der musikalisch extremeren Welt, die ihn umgibt. Der zweite Band des Préludes wird 1913 veröffentlicht; am 29. Mai desselben Jahres hatte Igor Strawinski mit der Frühlingsweihe der herkömmlichen Musik den Fehdehandschuh hingeworfen. Eigentlich hatten Strawinski und Debussy bereits ein Jahr davor am 9. Juli das Ballett in einer Transkription für Klavier zu vier Händen in Bellevue aufgeführt. (Danach waren die beiden in Anbetracht solch aufregender Musik viel zu betroffen, um auch nur ein Wort aussprechen zu können). Mann kann sich leicht denken, dass der Franzose – seit jeher ein penibler Sammler externer Anregungen – von der unglaublichen Kompositionsfähigkeit des Russen beeindruckt worden war: Dieser hatte aus ‚gewöhnlichen’, überlagerten Akkorden verwegene Klangtexturen zu gewinnen gewusst.
Im zweiten Band der Préludes geht Debussy oft vor wie ein vergnügtes Schachspieler, der die schwierigsten Positionen mit wenigen Stücken auf dem Schachbrett kreiert und manchmal bewusst in eine Sackgasse gerät, um sein Geschick, sich herauszuwinden, zu erproben. Manchmal spielt er mit offenen Karten, wie in Les tierces alternées, wo eine einfache harmonische Formel über die Tastatur hin und her gleitet; manchmal ist sein Spiel nicht so leicht überschaubar, wie in Canope, das an Danseuses de Delphes erinnert; diesmal bleiben jedoch die Laien außerhalb des Tempels, denn nur eingeweihte Seelen dürfen am Ritus teilnehmen.
Auf der musikalischen Reise der Préludes wird Abschied von der Vergangenheit genommen, etwa in den von den Impressionisten geliebten Bruyères oder in der geschmeidigen Ondine – beide gelten als Kompositionen außerhalb des damaligen Zeitgeistes. Zugleich wird die Zukunft begrüßt: Das Stück General Lavine – eccentric kündigt der triumphierende Eintritt der Zirkusmusik an; darin wird sich in der Nachkriegszeit die Gruppe der Sechs wie in ihrem Element fühlen, obwohl der vor-minimalistische Satie bereits tätig war und sein freches Ballett Parade in seinem Geist plante, das er drei Jahre später vorführen würde. Außerdem verwandelt sich Debussys Hommage auf den Dickens’schen Mr. Pickwick in eine hämische Satire britischer Heuchelei, als wollte ‚Claude de France’ – um D’Annunzio zu zitieren – Jeanne d’Arc musikalisch rächen. So geht Debussy also vor, rigoros und doch frei: Die zwölf Stücke spiegeln sich in umgekehrter Reihenfolge ineinander wider – das erste im zwölften und so fort.
Nicht zufällig blicken die beiden Préludes, die den Band eröffnen und schließen, gleich nach hinten und nach vorne. Brouillards evoziert die Stimmung um die Jahrhundertswende, Feux d’Artifice zerstört und verleugnet sie durch fast rumpelnde Passagen, wie die am Anfang auftretenden kleinen Sekunden und Glissandos zeigen, die an der Grenze zwischen Klang und Geräusch liegen.
Das muss eine geheimnisvolle Sternenkonjunktur bewirkt haben: Am 12. März 1912 – im selben Jahr, in dem Debussy die Frühlingsweihe mit Strawinski spielte – führte ein kaum fünfzehnjähriger Henry Cowell beim San Francisco Music Club diverse selbstkomponierte Stücke auf, die verblüffende Titel trugen, etwa Night Sounds, The Ghouls Gallop, Weird Nights. Diesen Titeln entsprachen ebenso verblüffende Klänge, die aus Fausten- und Unterarmschlägen gegen die Tastatur (die berühmten tone clusters) sowie Saitenzupfen bestanden; auf der amerikanischen Ostküste arbeitete dagegen Charles Ives an seiner bekannten Concord Sonata (1914).
Es kommt so vor, als versuchten zur selben Zeit all diese Genies wie moderne Alchemisten, aus dem Klavier Klangeffekte und -texturen zu gewinnen, die bisher von der ‚offiziellen’ Musik ignoriert worden waren.
Bela Bartók hatte seinerseits mit dem Instrumentarium des Ethnomusikwissenschaftlers gearbeitet: Seine Reisen durch sein Vaterland hatten ihm eine noch voll zu erforschende musikalische Welt offenbart: Diese wies melodische und harmonische Besonderheiten auf, die Bartók sich meisterhaft angeeignet hatte, wie er gerade in den Improvisationen über ungarische Volkslieder (1920) zeigt. Hier taucht der typische Liszt’sche Trick – mal zitiert, mal verarbeitet – wieder auf, der darin besteht, ein bekanntes Motiv wiederaufzunehmen und durch Notengirlanden, Arpeggien und Verzierungen zu schmücken – dies fällt in Paraphrasen aus Opern, wie der berühmten Paraphrase des Verdi’schen Rigoletto, besonders auf. In den Improvisationen benutzt Bartók den Liszt’sche Trick auf verschiedene Art und Weise – mit einem explosiven Effekt, der gleichzeitig spröde, antisentimentalistisch und antirhetorisch ist. So entzünden sich die kleinen Sekunden, die Debussy geschmeichelt hatten, unverhüllt im fünften Stück und alternieren dort mit den Quinten, die an ländliche Volksmusik erinnern; im siebten Stück – das nicht zufällig als Hommage auf Debussy für eine Gedenkausgabe der Revue Musical gewählt wurde – kommt das Volksmotiv in den Klangtexturen vor, die an La Cathédrale Engloutie erinnern, doch jeglicher luftigen Suggestion entblößt sind.
Die erste Weltkrieg hatte die Welt der Mélisande und der Monet’schen Seerosen begraben: Während der Franzose Debussy in der blutigsten Phase des Kriegs gestorben war, hatte sein ungarischer Kollege Bartók die nicht leichte Verpflichtung übernommen, alles, was von der musikalischen Kultur seines Landes noch zu retten war, der ganzen Welt zu schenken – dabei verzichtete er auf eine manieristisch-kleinbürgerliche Volkstümelei, suchte neue Anregungen zwischen Klang und Geräusch und bat sogar fünf Jahre später Cowell darum, dessen tone clusters in seinen Kompositionen verwenden zu dürfen.


In der Welt um die Jahrhunderstwende, die ihrer eigenen Selbstmord entgegentanzte, mochte ein Komponist wie Skriabin fehl am Platz vorkommen – und das besonders im Vergleich zu seinem Studienkollegen Rachmaninov, der als echter Salonlöwe jeder Situation gewachsen war und sich in Virtuositäten und exotischen Kompositionstricks schwelgte. Zugleich erscheint Skriabin jedoch viel moderner: Er flirtet mit der Theosophie, stellt Theorien über musikalische und visuelle Synästhesien aus Klängen, Farben, Tänzen, Projektionen auf und nimmt die aktuelle postmodernistische Kontamination praktisch schon vorweg – und das noch vor sieben Jahrzehnten.
Auch Skriabin wird mit dem (spät-)romantischen Klavierstil fertig, der allmählich verarmt hatte, doch geht dabei mit Gogol’schen Ironie vor: Das Prélude et Nocturne für die linke Hand setzt sich zum Ziel, eine Welt aus schmachtenden Arpeggien, süßen Melodien und leisen Akkorden zu schaffen, die aber, wenn sie mit zwei Händen ausgeführt würden, sich als nichts besonders originell erweisen könnten.
Skriabin will aber, dass eine einzige Hand, die linke, das ganze Stück übernimmt – mit allen technischen Schwierigkeiten, die dabei entstehen. Damit erzielt er eine rare Klangfülle und eine Kraft, die alle für die Hervorhebung der Melodie nötigen harmonischen Nuancen enthält.


Die Reise wird natürlich weitergehen: Als nächste Etappen gelten John Cages präpariertes Klavier, La Monte Youngs well tuned piano, John Adams herzzerreißende und doch unmögliche Aufstöberung einer verlorenen musikalischen Welt, oder – im Jazz-Bereich – der Mix aus Afrikanismus und Modernismus beim afroamerikanischen Virtuosen Cecil Taylor, der einen Musikhochschulabschluss hat und die afrikanische Musik erforscht.
Alles, alles nahm jedoch hier seinen Anfang, als man begann, das Klavier als ein Möbelstück zu betrachten, das das Prestige derer, die es spielen bzw. besitzen, verstärkt, und es zu einer ewigen Werkstatt für Erfindungen und Entdeckungen zu machen, die sowohl vergangenheits- als auch zukunftsorientiert sind.

Francesco Chiari


(Übersetzung: AdrianoMurelli)






Un breve accenno ... del nuovo CD ... "buon ascolto"


 
01.

Prélude pour la main gauche op. 9 n. 1
ALEXANDER SCRIABIN
- Prélude et Nocturne pour la main gauche op. 9 - 2'41"

 
02.
Nocturne pour la main gauche op. 9 n. 2
ALEXANDER SCRIABIN
- Prélude et Nocturne pour la main gauche op. 9 - 5'15"
 
03.
Brouillards
CLAUDE DEBUSSY
- Préludes. Libro secondo - 3'57"
 
04.
Feuilles mortes
CLAUDE DEBUSSY
- Préludes. Libro secondo - 3'06"
 
05.
La puerta del vino
CLAUDE DEBUSSY
- Préludes. Libro secondo - 3'26"
 
06.
Les fées sont d’exquises danseuses
CLAUDE DEBUSSY
Préludes. Libro secondo - 3'20"
 
07.
Bruyères
CLAUDE DEBUSSY
- Préludes. Libro secondo - 3'28"
 
08.
Général Lavine, eccentric
CLAUDE DEBUSSY
- Préludes. Libro secondo - 2'50"
 
09.
La terrasse des audiences du clair de lune
CLAUDE DEBUSSY
- Préludes. Libro secondo - 4'35"
 
10.
Ondine
CLAUDE DEBUSSY
- Préludes. Libro secondo - 3'57"
 
11.
11 Hommage à S.Pickwick, Esq., P.P.M.P.C.
CLAUDE DEBUSSY
- Préludes. Libro secondo - 2'31"
 
12.
Canope
CLAUDE DEBUSSY
- Préludes. Libro secondo - 3'17"
 
13.
Les tierces alternées
CLAUDE DEBUSSY
- Préludes. Libro secondo - 3'07"
 
14.
Feux d’artifice
CLAUDE DEBUSSY
- Préludes. Libro secondo - 5'09"
 
15.
Molto moderato
BELA BARTOK
- Improvisations sur des chansons paysannes hongroises op.20 - 1'09"
 
16.
Molto capriccioso
BELA BARTOK
- Improvisations sur des chansons paysannes hongroises op.20 - 1'07"
 
17.
Lento, rubato
BELA BARTOK
- Improvisations sur des chansons paysannes hongroises op.20 - 2'36"
 
18.
Allegretto scherzando
BELA BARTOK
- Improvisations sur des chansons paysannes hongroises op.20 - 0'54"
 
19.
Allegro molto
BELA BARTOK
- Improvisations sur des chansons paysannes hongroises op.20 - 1'05"
 
20.
Allegro moderato, molto capriccioso
BELA BARTOK
- Improvisations sur des chansons paysannes hongroises op.20 - 1'41"
 
21.
Sostenuto, rubato (à la memoire de Claude Debussy)
BELA BARTOK
- Improvisations sur des chansons paysannes hongroises op.20 - 2'02"
 
22.
Allegro
BELA BARTOK
- Improvisations sur des chansons paysannes hongroises op.20- 2'00"




Etichetta LIRA CLASSICA


Catalogo N°LR CD 120
Anno 2009

Prodotto da Massimo Monti
Musicisti Associati Produzioni M.A.P.

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